onere della prova nelle responsabilità medica

Se il paziente non prova il nesso di causalità tra l’insorgenza della malattia e la condotta del medico, la domanda risarcitoria viene rigettata.

1. Cos’è il nesso di causalità

Il nesso di causalità è quel rapporto tra il comportamento del soggetto autore del fatto e l’evento dannoso. In quanto, affinché un determinato comportamento possa dar luogo a responsabilità occorre sempre che l’azione o l’omissione del soggetto responsabile sia collegata all’evento lesivo per mezzo del rapporto di causalità. Quindi l’azione o l’omissione devono essere diretta conseguenza dell’accadimento lesivo e che in loro assenza il danno non si sarebbe sicuramente verificato.

2. La vicenda

Si è tornato a discutere dell’onere della prova in campo di colpa medica con la Sent. 188/2022 del Tribunale di Reggio Emilia.

Nello specifico la vicenda trae origine da un intervento di chirurgia estetica relativo a mastoplastica additiva effettuata nel 2011 da un dottore operante in un centro medico di Reggio Emilia.

Dopo otto anni e mezzo dall’intervento la donna promuoveva un accertamento tecnico preventivo ex art. 696 bis c.p.c. nei confronti del medico e della struttura deducendo l’esistenza di una colpa medica nell’effettuazione dell’intervento e domandando di quantificare il danno subìto. All’esito dell’ATP, che confermava l’esistenza di inestetismi derivanti da differenza di forma e volume delle due mammelle, si procedeva con il giudizio di merito. 

Il centro medico si costituiva in giudizio e deduceva l’assenza di colpa medica, sul presupposto che, così come accertato dall’ATP, i modesti inestetismi residuati, integrati da una leggera asimmetria mammaria, erano riferibili ad una complicanza ben descritta nella letteratura scientifica e della quale la paziente era stata adeguatamente informata.

Pur potendo decidere la controversia sulla base dell’ATP, frutto di un iter logico ineccepibile e dal quale il Giudicante non ha motivo di discostarsi, la stessa sottolineava le difficoltà di una valutazione effettuata dopo nove anni dai fatti ed in mancanza di documentazione intermedia prodotta dall’attrice. Infatti il collegio peritale concludeva che “da un punto di vista chirurgico plastico, non si hanno elementi documentali che ci permettano di affermare che la modesta asimmetria mammaria esistente e la modesta dislocazione verso l’alto e lateralmente della protesi mammaria sinistra siano la conseguenza di un errato allestimento delle tasche sottomuscolari di alloggiamento delle protesi. Difatti, sulla scorta della documentazione in atti, questa assurge unicamente ad un’ipotesi, potendosi per contro affermare, viste anche le discordanze tra quanto indicato nella perizia del dott. omissis e quanto effettivamente registrato in occasione della visita peritale, che le dismorfie rilevate siano probabilmente la conseguenza della contrattura capsulare, evento prevedibile ma non prevenibile dai Sanitari, per cui non sarebbe rilevabile alcuna censura. Ovviamente tali conclusioni derivano dalla disamina della documentazione in atti e dal quadro mammario rilevato in occasione della visita peritale, ovvero a distanza di circa 9 anni dall’intervento di mastoplastica additiva bilaterale in discussione, non avendo a disposizione alcun documento che attesti la morfologia preoperatoria delle mammelle, né certificati/fotografie che attestino l’evoluzione nel tempo dell’intervento effettuato, dai quali potrebbe emergere un eventuale errore di allestimento”.

Quindi secondo l’ATP da una parte non c’è prova che gli inestetismi, valutati nella misura del 2,5% di danno biologico, siano riconducibili a colpa medica; e dall’altra che la leggera dismorfia rilevata ben potrebbe derivare da una complicanza prevedibile ma non prevenibile dai sanitari, per la quale è stato raccolto un adeguato consenso informato, ciò che esclude la possibilità di un addebito per colpa ai sanitari stessi.

Sulla base di ciò la domanda attorea va rigettata in quanto l’attrice, su cui incombeva l’onere probatorio, non ha provato il necessario presupposto della colpa medica posto alla base della domanda risarcitoria, ma si è limitata a richiamare le risultanze di un ATP in realtà favorevole al centro medico e al sanitario e sfavorevole alla paziente.

3. La scomposizione del ciclo causale nell’onere della prova

Il Tribunale di Reggio Emilia con la sentenza n. 188 del 17 febbraio 2022 quindi conferma, nell’ambito della colpa medica, quanto sancito nella giurisprudenza della Cassazione in cui la sentenza capostipite è la Cass. n. 18392/2017, sostenuta dalla vasta giurisprudenza successiva Cass. nn. 28992/2019, 28991/2019, 28989/2019, 27606/2019, 5487/2019, 29853/2018, 9853/2018, 27455/2018, 27449/2018, 27447/2018, 27446/2018, 26700/2018, 20812/2018, 22278/2018, 20905/2018, 19204/2018, 19199/2018, 18549/2018, 18540/2018, 5641/2018, 3704/2018, 3698/2018, 29315/2017, 26824/2017).

Il principio sancito e confermato è che l’onere della prova va modulato sulla cosiddetta scomposizione del ciclo causale in due elementi: 

  • spetta innanzitutto al paziente provare il nesso causale tra l’insorgere della patologia e la condotta del medico; 
  • solo in un secondo momento, laddove il paziente abbia dato prova di tale ciclo causale, il sanitario deve provare il pieno rispetto delle leges artis o comunque delle best practices, evidenziando la causa non imputabile che gli ha reso impossibile fornire la prestazione corrispondente ai canoni di professionalità dovuti. 

Conseguentemente, nel caso rimanga incerta la causa del danno lamentato, la domanda risarcitoria del paziente dovrà essere rigettata, non avendo lo stesso provato il nesso causale tra l’insorgere della patologia e la condotta del medico.

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